Mutazioni invisibili (o quasi)

Le nuove tecniche di editing genomico stanno rivoluzionando l'agricoltura, permettendo modifiche precise del DNA delle piante con una semplicità e un'efficacia mai viste prima. Questa rivoluzione tecnologica ha creato però un paradosso normativo: mentre le modifiche genetiche diventano sempre più facili da implementare, i metodi per riconoscerle si scontrano con limiti tecnici apparentemente insormontabili.

La normativa europea e gli OGM 📝

Quando fu approvata la Direttiva 2001/18, nessuno si aspettava il successo straordinario di CRISPR/Cas9 e delle nuove tecniche di editing genomico. L'articolo 2 definisce un organismo geneticamente modificato in questo modo:

un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l'accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale.

Nella definizione rientrava tutto ciò che non è “naturale”: non solo, quindi, gli OGM ottenuti per via biotecnologica trasferendo geni da altre specie, ma anche le varietà di piante derivanti da mutagenesi chimica o per irraggiamento. Queste ultime, tuttavia, erano escluse dal campo di applicazione della direttiva, come specificato nell'Allegato IB, trattandosi di tecniche utilizzate per molto tempo e con una “lunga tradizione di sicurezza” (Considerando 17 della Direttiva).

Non sono distinzioni da poco, perché i criteri di etichettatura e monitoraggio previsti dal Regolamento 1829/2003 sono molto stringenti: in base a questa normativa, se un alimento o un mangime contengono OGM in una percentuale superiore allo 0,9%, dovranno essere etichettati come tali. E considerata la nota avversione degli europei nei confronti di questa tecnologia, un'etichetta di questo tipo può avere un impatto enorme sul comportamento dei consumatori e sulle vendite. La soglia dello 0,9%, inoltre, si riferisce agli OGM autorizzati, quelli valutati come sicuri dall'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA). Se invece parliamo di OGM non autorizzati, allora siamo praticamente alla tolleranza zero. Si può fare un'eccezione solo per i mangimi contenenti OGM con autorizzazione scaduta o per i quali c'è una procedura di autorizzazione in corso: in questo caso si è posta una soglia di “zero tecnico” allo 0,1%.

Rilevare gli OGM 🔎

La questione delle soglie è di fondamentale importanza per l'attuazione della legge europea: occorrono infatti metodi analitici che consentano di rilevare il DNA geneticamente modificato, identificare gli specifici OGM presenti in un campione, quantificarli, e fare tutto questo in modo affidabile anche a concentrazioni molto basse.

Fino a poco tempo fa, la cara vecchia PCR era lo strumento ideale: affidabile, economica, disponibile in quasi tutti i laboratori. Bastava disegnare dei primer adatti, uno che si legasse alla sequenza genetica inserita e uno che si legasse alla sequenza naturale della pianta vicino al punto di inserimento. In questo modo si poteva amplificare specificamente il punto di giunzione tra il DNA inserito e quello originale della pianta, creando una sorta di “firma genetica” unica dell'OGM. Ovviamente, occorre assicurarsi che il metodo dia risultati affidabili e riproducibili, e per questo si organizzano dei ring trial che coinvolgono molti laboratori. Dal punto di vista analitico, però, si tratta di un'operazione fattibile.

Con lo sviluppo delle tecniche di genome editing – e di CRISPR/Cas9 in particolare – le cose stanno cambiando velocemente. Le New Genomic Techniques (NGT) consentono di modificare in modo preciso il genoma di una pianta, anche sostituendo un solo nucleotide: rilevare tali modifiche con la PCR è difficilissimo, in molti casi praticamente impossibile. Bisognerebbe infatti disegnare dei primer che riconoscano la sequenza modificata, ma non quella originale, che è praticamente identica.

L'Unione Europea sta discutendo una nuova normativa per i prodotti ottenuti tramite NGT, ma al momento vale ancora il Regolamento del 2003: questi prodotti sono da considerarsi quindi OGM, ed essendo innovazioni recenti non possono neppure essere esentati per via di una lunga tradizione di sicurezza. In un modo o nell'altro, quindi, i prodotti NGT devono essere rilevati. Come è possibile farlo, se la PCR non ci è d'aiuto?

Il sequenziamento duplex 🧬

In un recente articolo che ho pubblicato insieme ad altri colleghi del Joint Research Centre e di IGA Technologies, descriviamo una strada alternativa che abbiamo provato a esplorare per la rilevazione di queste mutazioni: si basa sul sequenziamento, e nello specifico sul sequenziamento duplex.

Con il sequenziamento, si evita il problema tecnico insito nella PCR: qui non ci sono primer che devono appaiarsi alla molecola di DNA, se ne legge semplicemente la sequenza. C'è però un altro problema. Come detto, la normativa prevede che si debba poter rilevare un OGM anche se presente in quantità bassissime (0,9%, o addirittura 0,1% per i mangimi con OGM non autorizzati). Di per sé, questo non sarebbe un grosso ostacolo per un approccio basato sul sequenziamento: la sensibilità della tecnica è elevatissima. Siamo però molto vicini al rumore di fondo, e insieme alle mutazioni attese potrebbero essere rilevate anche mutazioni causate da errori di sequenziamento, o artefatti della procedura di laboratorio.

Il sequenziamento duplex può aiutare moltissimo a migliorare il rapporto segnale/rumore. Sostanzialmente, si applica un'etichetta molecolare unica (Unique Molecular Identifier, o UMI) su ciascuna molecola di DNA. Queste etichette sono progettate in modo tale che, per ogni molecola, sia possibile distinguere e tracciare separatamente ciascuno dei due filamenti complementari. Dopodiché, al termine del sequenziamento, si raggruppano tutte le sequenze con la stessa etichetta e si costruisce un “consenso” per ognuno dei filamenti di ciascuna molecola. Con questo trucchetto, si riescono a scartare gran parte delle mutazioni introdotte dalla procedura, perché solo le mutazioni già presenti nel campione originario saranno rilevate in più molecole distinte, e confermate da entrambi i filamenti.

Per testare questo nuovo approccio, siamo partiti dal DNA di quattro linee di pomodoro modificate con CRISPR/Cas9 e le abbiamo diluite in DNA non modificato, in modo tale che ciascuna delle mutazioni fosse presente a diverse concentrazioni: 0,1%, 0,5%, 0,9%, 10%. Si trattava di piccole inserzioni e delezioni, il genere di modifiche che è possibile aspettarsi realisticamente in un prodotto NGT commerciale.

Abbiamo analizzato tre replicati per ciascun livello, filtrando le mutazioni rilevate in modo da considerare come valide soltanto quelle confermate in entrambi i filamenti in almeno due molecole di DNA. I risultati sono stati incoraggianti: utilizzando una quantità sufficiente di DNA, è stato possibile rilevare tutte le mutazioni attese in tutti e tre i replicati fino al livello più basso (0,1%). L'analisi ha mostrato anche altre mutazioni inattese presenti in percentuali bassissime, ma in nessun caso la stessa mutazione era presente in tutti i replicati, confermando che il metodo non è solo molto sensibile, ma ha anche un'elevata specificità.

Se l'esperimento è stato un successo dal punto di vista della rilevazione, non si può dire altrettanto dal punto di vista della quantificazione. Il rapporto tra molecole mutate e molecole totali avrebbe dovuto corrispondere alla concentrazione del DNA mutato iniziale (0,1%, 0,5%, 0,9% e 10%), ma la misurazione non è risultata precisissima, specialmente a concentrazioni molto basse. In effetti, alla soglia dello 0,9% la precisione era mediamente accettabile, ma il risultato dipendeva molto dalla specifica mutazione. Insomma, c'è ancora del lavoro da fare.

Naturale o artificiale? 🌱

Quello analitico è comunque solo uno degli aspetti problematici, parlando di genome editing. Anche avendo a disposizione un metodo di misurazione perfetto (e non lo abbiamo), siamo in grado di stabilire l'origine della mutazione che abbiamo rilevato?

In Italia queste tecnologie si chiamano TEA (Tecniche di Evoluzione Assistita), e per un buon motivo: questa espressione fantasiosa suggerisce, infatti, che le stesse mutazioni introdotte con CRISPR/Cas9 potrebbero verificarsi spontaneamente in natura, solo con tempi più lunghi. Se questo è vero, come possiamo distinguere una mutazione “artificiale” da una identica ma naturale? Anche il metodo di rilevamento più sofisticato non potrebbe dirci nulla sull'origine della mutazione: siamo di fronte a un problema di classificazione ancora più complesso da risolvere. Ne riparleremo.

Moreno Colaiacovo, @emmecola